domenica 9 marzo 2014

Pensieri d'arte

Il film


Vincent & Theo di R. Altman (1990)
☻☻☻+

si apre con la vendita all'incanto del Vaso con 15 girasoli, che in quella occasione venne battuto per 39.7 milioni di dollari, un record assoluto; per la cronaca, oggi il più costoso quadro che sia mai stato venduto è I giocatori di carte di Cézanne, comprato dal Qatar per (più di) 259 milioni di dollari; 
credo che per molti spettatori sia impossibile comprendere la follia di queste cifre, del mercato dell'arte in sé, e di come un "nome", la firma sulle tele,  possa rendere inestimabile o quasi l'opera di un pittore che pure in vita era un poveraccio, un alienato, un beone, un puttaniere con dei seri problemi fisici e mentali; ovvero la insania innaturale, artificiale del denaro, che rende perfettamente il concetto della follia di certi costi e certe spese, e la follia naturale, il caos perfetto, che finì per distruggere completamente le vite di certi artisti, ma non di meno lasciò all'umanità qualcosa che appare sempre nuovo, malgrado tutto il tempo trascorso, qualcosa di eternamente "bello", che ci rende complici della loro follia spesso inconsapevolmente, attraverso un mero sguardo; e dei tanti pittori più o meno famosi nel mondo, che non abbiano valicati i confini della natura per sottometterli alle forme ideali della geometria euclidea (come Picasso) o dell'astrazione (altre forme di astrazione) nessuno si può dire altrettanto inconfondibile quanto Van Gogh; questo mi porta a pensare che più di ogni altro -e solo grazie alla sua sindrome patologica- egli fosse indistinguibile dalla sua propria arte, il cui "stile" immediatamente riconoscibile è quello che ha immortalato il movimento (del pennello, delle cellule) e quindi la tela stessa, nell'assieme percepito attorno a sé dell'artista, che inevitabilmente dipingeva soprattutto scene naturali, paesaggi e nature morte, fra cui i tanti, famosi girasoli


non è un caso che il girasole, con i suoi semi spettacolari, sia spesso menzionato quando si parla della successione di Fibonacci, che è a sua volta uno dei tratti comuni della forme geometriche frattali; i quadri di VG, con le loro singole pennellate distinte, come infiniti fotogrammi di una medesima azione, sono riflessi della geometria frattale che vediamo espressa ovunque in natura, nel più Grande Mistero che conosciamo come "illusione materiale", il fantomatico Velo di Maya della tradizione Orientale; il pazzo Van Gogh era forse tanto (iper)sensibile da poter osservare questa natura ingannevole nel suo costante divenire, nella sua eterna mutazione frattale, e anche tanto abile da poterla riprodurre visivamente, con un senso della realtà che non avrebbe lasciato indifferente il pubblico secoli dopo; ma il vivere a stretto contatto con questa "realtà occulta" della natura, nella osservazione intima e costante di fenomeni che sono per chiunque indifferenti, universalmente  indifferenti, e che pure determinano nel loro insieme (frattale) la "realtà apparente", può risultare deleterio per chi non possa -paradossalmente- restare indifferente, e questo non può che essere un "artista", poiché nella sua opera si materializza letteralmente la sua visione della realtà; in questa realtà artistica vissuta sempre sul limite della sociopatia, possiamo riconoscere il concetto del "demone" di aristotelica memoria, un demone che anche in questo caso ebbe la meglio sull'uomo



E certo, parlo per esperienza personale, ma non essendo altrettanto "dotato" quanto lo fu Van Gogh non ho mai nemmeno considerata la carriera del pittore; il film di Altman non è incoraggiante in questo senso, perché essenzialmente descrive la ben nota realtà dell'arte come mestiere, che prende per fame il più grande artista fino al suo decesso, quando la sua opera diviene "immortale", e quindi "inestimabile"; tutte le vicende personali e particolari di Vincent e suo fratello Theo Van Gogh, "mercante d'arte", qui descritte in toni essenziali e intimistici, sono un ottimo spunto di riflessione e sono portate sullo schermo da Altman con un verismo pittorico che ci ricorda McCabe & Mrs. Miller, con l'aiuto del cameraman Canadese Jean Lépine (poi DoP per Altman in The PlayerPrêt-à-Porter







e la colonna sonora a tratti snervante, quasi-cacofonica del Libanese Gabriel Yared (Oscar nel '97 per The English Patient) che riesce a imprimere un senso di profonda inquietudine alla visione; con un poco dell'inesorabile overlapping dei copioni altmaniani qui ridotti, con grande effetto drammatico, al minimo indispensabile; ma fra i meriti della riuscita non si possono dimenticare i costumi di Scott Bushnell (già costumista per l'enimmatico Quintet e l'improbabile Popeye) e le scenografie del figlio di Robert, Stephen Altman;


estremamente vive


Tim Roth è encomiabile nel suo ritratto dell'artista


e non gli è da meno il fratello filmico, Theo, impersonato da Paul Rhys


che poi purtroppo a quanto pare si è disperso nella folla del cinema;

un'opera grave quanto basta da rinnovare la mia annosa ammirazione per Altman, in questa produzione multi-nazionale in cui prese parte anche la RAI; malgrado ciò Wikipedia Italia è avarissima di informazioni a riguardo, mentre  da quella Inglese sappiamo che "In origine era una miniserie di quattro ore per la BBC" e "Altman e lo scrittore Julian Mitchell furono in grado di accorciarla a due ore e mezza" e che "La produzione risparmiò pagando degli studenti d'arte per riprodurre i capolavori di Van Gogh"; queste, in totale, sono anche le informazioni offerte da IMDB su questo titolo, che a mio modesto parere è stato alquanto sottovalutato, ma il fatto che Altman e Mitchell siano stati in grado (were able to) di ridurre quella che era stata ideata come miniserie, oltre al dettaglio bohèmien sulla produzione, dovrebbe bastarci per capirne il motivo; un film molto artistico, per quanto può esserlo un film, che ha tra l'altro il pregio unico di mostrare la controparte "sana" (a parte un po' di sifilide) dei F.lli Van Gogh, una sorta di pietra di paragone e un costante riferimento per il "malsano" Vincent, che morì a distanza di pochi mesi dal fratello.

Un film che dà parecchio, forse fin troppo su cui riflettere, per chiunque abbia anche un minimo sintomo di quella sindrome creativo-distruttiva di cui Van Gogh fu un esempio completo, fino alle estreme conseguenze; tutto sommato, deprimente, e questo è invece un sintomo -sempre più raro- di quello che io chiamo un buon film, in grado di modificare di qualche grado il tuo "umore", e di innescare sequenze di pensieri non-lineari; talvolta creativamente stimolanti, perlopiù, soltanto deprimenti; ma il ritorno della Prima, Unica e Vera Stagione (prima dell'Estate =) dopo un'Era di Grandi Piogge ha portato all'incontro con una fiera locale, un personaggio assai loquace, e morbido quanto basta per cancellare il malumore definitivamente;


cosa si potrebbe chiedere di più adorabile di un pancino da carezzare?

Le vibrazioni delle così dette fusa dei gatti sono come un' iniezione di puro benessere


per non parlare di quei capelli... 

Il contatto con il "tuo" gatto (come coinquilino, ne so qualcosa da sempre) è qualcosa di magico; ma il contatto con un gatto sconosciuto è la più inattesa delle magie, la migliore sorpresa che mi possa capitare. Ringrazio il dio dei gatti perché mi capita ancora, di tanto in tanto.



P.S.: Leggendo di Van Gogh sono finito a questo articolo della BBC dove un ricercatore avanza l'ipotesi dell' omicidio di Vincent per mano di due ragazzi, che egli avrebbe discolpati con il suo silenzio; essenzialmente questo non cambia il finale "storico" riprodotto nel film, ma rende ancora più interessante lo strano rapporto dell'artista con la morte.

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