sabato 28 dicembre 2013

Giallo pelo

Da non confondersi con Il mistero del Carillon (1946)


Dressed to Kill di B. De Palma (1980)

☻☻

è un thriller sessuale in cui sono riconoscibilli altri elementi hitchockiani, mentre -purtroppo- Bernard Herrmann è sostituito da Pino Donaggio; ancora Hitchcock, ma sotto la solita doccia si vede un po' di pelo


(che non è quello della protagonista, ma di una controfigura)

per ricordare l'incombenza degli anni '80;


qui Michael Caine e Angie Dickinson ribaltano i ruoli di Gregory Peck e Ingrid Bergman in Spellbound, e al termine della vicenda il "rapporto psichiatrico" dello specialista


rimanda inevitabilmente al finale di Psycho; ma si parla di transexual, e non di transvesite; un piccolo passo per il paziente, un grande passo verso il basso per l'umanità;


per il resto, il film funziona da solo e bene, anche grazie al dettaglio autobiografico dell'autore, di cui già intravvediamo una certa simpatia per le architetture urbane;


Certamente all'epoca tante libertà avranno fatto discutere, oggi con tutta la sua carica provocatoria Dressed to Kill è un documento storico che rivela i segnali di un cambiamento tutt'altro che positivo, la volgarizzazione intellettuale del cinema americano, con un autore famoso -e furbo- che dirige due attori famosi -per quanto non giovanissimi- in un giallo "all'italiana", sanguinolento quanto basta e in cui si parla apertamente di disfunzioni sessuali, e delle prestazioni professionali della quasi-protagonista, Nancy Allen, che è una prostituta d'alto bordo


e allora era la moglie di De Palma;

Lo schermo diviso a metà; uno dei "trucchi" di De Palma già visti in Sisters (1973)
Un giallo che funziona ancora, ma per poterlo apprezzare occorre saper apprezzare il giallo, cosa che a me non riesce ancora molto bene; anche se non è made in Italy.

venerdì 27 dicembre 2013

Aria detersa

L'estate dell'anno scorso avevo constatato che il profumo soaverrimo dei fiori di un certo alberello si può riassumere nella parola "viburno", nome che però comprende un intero genere di piante; quest'inverno sono ancora incerto sulla specie di viburnum che, incurante della mia ignoranza, mi ha estasiato per qualche momento con l'aroma ipnotico dei suoi fiori, durante le mie passeggiate estive verso il parco;


(ADDENDUM 13.11.19: in realtà trattasi di Clerodendrum trichotomum; non esistono alberi di Viburnum nella mia città!)

in pieno inverno, ormai allo scadere dell'anno, ho finalmente identificato il fiore che in questa stagione densa di puzze urbane allieta il mio naso; si tratta del fiore di Calicanto, o Cimonanthus Precox, di cui Wikipedia ci offre questo ritratto non proprio artistico


e del resto il fiore del calicanto è piccolo e non è affatto appariscente, anzi si fa quasi fatica a distinguere nell'insieme della pianta, ma in compenso il suo profumo pungente, grave, che ricorda un qualche tipo di detersivo primordiale, è inconfondibile e pressoché unico in questa stagione; si sparge per diversi metri, o decine di metri, attorno alla pianta, e ti fa pensare a quanto è meravigliosa e gentile questa Terra, che si preoccupa di profumarti l'aria quando tutti gli altri fiori sono morti... 
Poi esci dal parco, ti trovi di fianco la superstrada, e svieni. 
O, perlomeno, ti vien voglia di scrivere un post. Su un blog
Che altro?

giovedì 26 dicembre 2013

L'angolo del distratto

Ancora un po' di distrazione di massa, per il pomeriggio piovoso:

Cosa successe quel giorno, giù al vecchio tunnel abbandonato?


Occorrono 105' per avere la risposta, e non sono troppo convinto che il saperlo potrebbe migliorare qualcuno in qualche modo, perchè tra una sparatoria 


Narc di J. Carnahan (2002)

☻+


e un pestaggio, tra l'infamia della tossicodipendenza che intacca la memoria dell'agente morto ammazzato in circostanze misteriose e la strana storia dell'adozione di una minorenne recuperata sulla scena di un delitto, non compare niente che sia in alcun modo stimolante per la mente del blogger;

con qualche bella inquadratura del moscovita Alex Nepomniaschy
-- che non si può dire un gran merito per una produzione americana...
forse; in ogni caso una bella fotografia non ha mai fatto un bel film
nella maggior parte dei casi, i soggetti del cinema americano non mi appaiono tanto interessanti da giustificare nemmeno gli sforzi della produzione, per non parlare degli encomi della critica, e tantomeno dell' eventuale fenomeno mediatico; questo titolo non è quello che si può dire un successone, ed è pur vero che in un periodo funestato da ogni sorta di ripescaggio, di riciclaggio e riattaggio, tra sequels e remakes e reboots e franchise, già una sceneggiatura originale, ovvero scritta appositamente per lo schermo, è un evento degno di nota, specialmente se l'autore del soggetto è lo stesso regista; 

la schermata multipla del montage, classico del poliziottesco televisivo anni '70, è sintomatica
e dunque quali sono i reali meriti di questa originalità, quale urgente messaggio aveva da lanciare all'umanità multi-mediata Mr. Carnahan, narrando le gesta di due difensori della legge


Jason Patric


e Ray Liotta

invischiati in un mondo di corruzione e degrado, dove gli sbirri possono sempre rivelarsi peggiori dei lestofanti da loro stessi combattuti ma lottano per la propria umanità sintetica, raffigurata nel quadretto familiare in cui il (solito) poliziotto infiltrato appare come un estraneo? Il dubbio permane dopo la visione; sono dilemmi morali che si potrebbero proiettare nella realtà filmica di un droghiere, o di un elettricista, ma sono arrivato alla conclusione che la figura del poliziotto sia sempre stata preferita da tanti sceneggiatori per un semplice dettaglio: 


il loro prolungamento fallico, che accidentalmente rappresenta anche il loro strumento di lavoro, ovvero l'arma da fuoco, che permette loro di operare con successo sia nel settore pubblico che nel privato, a loro discrezione, per il risolvimento di tutti quei drammi a tinte forti, densi di scomode verità e colpi di scena, che possono vivere solo i rappresentanti di quella determinata categoria professionale, e allo stesso modo porvi rimedio servendosi in ogni caso del loro strumento... 
Ma questa è solo la mia ipotesi personale. 

Quello che ci insegna Narc invece è che Ray Liotta è un bravo attore, come ce ne sono pochi oggi

GRRRR! WOOF! GRAWL!!
Cosa che avevo già notato negli ultimi decenni; ho sempre preferiti quei films di cui posso apprezzare maggiormente qualche qualità cinematografica che non riguardi lo star system; ma non si può aver tutto.

Il film del pomeriggio


Land of The Pharaos di H.Hawks (1955)

☻+


è, evidentemente, un film in Warner Color, e rappresenta il primo fiasco commerciale di Hawks, che per quattro anni (giustamente) non fece più film; ma poi ci ripensò, e fece Rio Bravo (1959!!!).
Qui si seguono le stesse regole del western cogli indiani, per cui in un piccolo popolo di comparse indigene, o quantomeno indistinte nella massa


 gli individui caucasici che appaiono in primo piano, le stars, oggi appaiono paradossalmente buffi, specialmente quando hanno dei tratti somatici tanto ovviamente dissimili da quelli degli autoctoni, come nel caso del faraone Khufu di Jack Hawkins

che potrebbe forse somigliare all'egittologo egiziano Zahi Hawass, ma nessun faraone ha mai avuta una faccia simile...
e peggio ancora, della Principessa Nellifer interpretata da Joan Collins


con uno strato di fondotinta abbondante solo in volto, e un rossetto fosforescente che imprime nella mente dello spettatore tutta la malizia e la voluttà che soltanto le labbra di una principessa cipriota possono vantare;


il film di Hawks ha di buono che racconta della costruzione della (più) Grande Piramide, e di cattivo, anche;
non che le ipotesi scientifiche a questo proposito siano più o meno convincenti, più o meno affascinanti e più o meno efficaci nell'intrattenimento pubblico, di quelle para/fanta/scientifiche; ma questo film, al di là del suo valore disinformativo, fa apparire  i moderni statunitensi (soprattutto di origine ashkenazita) come gli artefici della costruzione; che non è una teoria da scartare a priori, ma richiede un certo sforzo di volontà che solo uno statunitense (soprattutto se di origine ashkenazita) può imporre a sè stesso;

"La nostra maestà non ammette l'uso di lacca, giovane schiavo!"

e mentre l'idea portante della trama ha più o meno la consistenza di un episodio della serie a fumetti "Astounding Tales", con il finale a sorpresa che ricompensa i giusti e punisce i malvagi, la pompa magna della produzione, con tutti i suoi colori sintetici, le sue scenografie accecanti
















 è degna di un film "storico" quasi-kolossale nello stile dei vecchi Studios Warner; Land of the Pharaos è un buon esempio di come la leggenda si confonda nel tempo alla realtà, anche grazie ad opere che sembrano già oggi risalire allo stesso periodo dei fatti narrati; il che forse, come si supponeva prima, corrisponde alla realtà storica...



anzi, è sicuramente così, per tutta la "storia" che può essere una qualsiasi esistenza umana anche rispetto ad una industria relativamente recente come quella del cinema. Mentre la storia dietro la "storia" è sicuramente un po' più vecchia di quella....

Con la più improbabile campana (a morto) della storia (del cinema =)


e con Luca Laurenti


già visto in Notorius (!) qui nel ruolo del Sacripante di corte.

mercoledì 25 dicembre 2013

Film Natalizio


The Petrified Forest di A.L. Mayo (1936)

☻☻☻+

è  almeno nell'incipit una "commedia romantica", il che già letteralmente e letterariamente definisce la varietà tematica del soggetto, anche se gli sviluppi criminosi, umanistici  e addirittura eroici - eroismo di una rara eleganza, per quanto burocratico- rendono ardua l'etichettatura di quest'opera, definita "precursore del noir" (data la presenza di un triangolo amoroso con delitto) da Wikipedia;

i fondali sono nuvolosi oggi... potrebbe piovere cartapesta
baci e pallottole si sono spesso visti assieme nei film di Hollywood ma raramente una semplice, fugace romance, qui vissuta in una tavola calda in mezzo al nulla, è stata inscenata con tanta intelligente ironia e con un tocco tanto leggero, malgrado gli inattesi (finora =) risvolti drammatici in cui è complice piuttosto laconico, ma con qualche battuta davvero spassosa, nel ruolo del desperado (SIC) stereotipico 


The Bogey himself, qui nella parte di Duke Mantee l'uomo-granchio; ammirate le chele;

potrebbero spezzare con facilità una noce di cocco
leggiamo qui che fu grazie all'irremovibilità di Howard, allora famoso attore teatrale, che lo volle a tutti i costi al posto di E.G.Robinson come "cattivo", che Bogart "diventò una star" grazie alla sua interpretazione  in questo film, e come leggiamo qui gliene fu riconoscente per il resto della sua vita;  dal canto suo, egli chiamò la figlia avuta da Lauren Bacall Leslie Howard Bogart in suo onore... cose da attori;


film riuscito anche grazie alla presenza radiosa di Bette Davis, quando era ancora lungi dall'essere un "mostro del cinema" ma se la cavava già benino con la recitazione, aiutata dal suo famoso sguardo;
e all'accento mid-atlantic pressoché perfetto e alla recitazione verista, moderna, per niente calcata e tantomeno shakespeariana dello shakespeariano Leslie Howard as Alan Squier -- già apparso al fianco della Davis in Of Human Bondage nel 1934 e quello stesso anno in Is Love I'm After


la pronuncia del suo nome è la stessa di "squire" , un titolo onorifico Inglese oggi adeguato ad ogni gentlemen  ma che in origine era quello dello scudiero, armigero, servente del cavaliere, il che definisce il profilo del suo piccolo ma lodevole eroe, scanzonato e disilluso, determinato nel suo errare, e capace del medesimo eroismo cavalleresco per la donzella di turno, prigioniera in un mondo di polvere; 


il deserto, appunto, ricco soltanto di cespugli rotolanti;


Alan Squier è uno dei pochissimi, forse l'unico degli eroi filmici a mettere in scena il proprio sacrificio con la testimonianza e l'appoggio di quasi tutto il cast; (warning... spoiler) e già solo per questo l'opera di Mayo che l'ha portato sugli schermi, dopo il suo successo a Broadway, merita un encomio;

per non parlare di quelle strane stelle...
Leslie Howard, solito ad interpretare "stiff-upper-lipped Englishmen" (Inglesi colla puzza sotto il naso) e  il cui invidiabile accento proviene dalla Alleyn School di Londra, era uno strano tipo di "Ebreo aristocratico", figlio di un Ungherese di nome Steiner e la cui madre, dall'inconfondibile nome ashkenazita di Blumberg, era stata cresciuta secondo Wikipedia con una educazione cristiana (!?);

Che avete da guardare? Mi sono spuntate delle corna sulla testa?
ma oltre l'inevitabile, intricato retroscena kosher che è proprio di tutti i film prodotti a Hollywood, al di là delle occasionali "stars", incombe la Gentilezza monolitica del dramma di Sherwood, pioniere della critica cinematografica e co-autore fra l'altro del famoso Rebecca e del formidabile Foreign Corrispondent assieme a Hitchcock, oltre a The Best Years of Our Lives

Con "6 uccisi e 2 fatalmente feriti" quantomeno gli illesi saranno tutti in ospedale...
qui scopriamo che il suo spirito fortemente pacifista (The Best Years of Our Lives è un vero e proprio, potente manifesto contro la guerra) lo aveva portato al suo esordio di drammaturgo, con la sua opera The Road to Rome, dedicata appunto alla "stupidità della guerra", e che solo ai tempi della 2a guerra mondiale egli si era schierato decisamente dalla parte delle Forze Alleate, "contro il Terzo Reich";

Oltre ad Howard è il caratterista Charley Grapewin (!) che interpreta Gramp Maple a sfondare la quarta parete, qui
questa presa di posizione è anche il motivo che potrebbe suscitare qualche sospetto riguardo la scomparsa di Howard/Steiner, caduto con altri 16 passeggeri su un piccolo aereo civile abbattutto --forse per errore, e forse no-- da una pattuglia della Lutwaffe. Ma questa è un'altra storia. Spesso le biografie degli attori e degli autori non hanno niente da invidiare a quelle dei personaggi dei films...
Riguardo poi il vero significato delle sue parole qui



è certo che si riferiscano all'opposto di un "chaos" dovuto secondo lui alla rivalsa della natura, che provoca "neurosis" e "jitters" nell'uomo moderno, strappato all'habitat naturale; ma la definizione esatta di un "new order" --che sottintende cioè l'esistenza di un vecchio ordine-- rende la sua battuta tiepidamente sospetta per noi teorici di ogni complotto possibile;


in ogni caso, The petrified forest è un piccolo gioiello di film, forse non un diamante ma una vera perla, che ci offre qualche risata, qualche motivo di riflessione, e perché no qualche possibile lacrimuccia per le signore; cosa possiamo chiedere di più?
Che smetta di piovere?