Altman di R. Mann (2014)
Nel 1967 Robert Altman (1925–2006) fu licenziato da Jacob "Jack" Warner in persona, dopo che questi aveva visto i giornalieri di Countdown e la motivazione, per come ce la racconta lui stesso, fu che "Quello stupido -che ero io- fa parlare gli attori nello stesso momento".
Lo 'overlapping' divenne poi una delle caratteristiche distintive dei films di Altman negli anni '70 e '80, opere "corali" anche nel senso più tradizionale del termine; con questa tecnica Altman voleva ricreare la 'vita reale', in cui le persone si parlano addosso e raramente stanno ad ascoltare, e dove ognuno deve dire la sua anche se sarà fiato sprecato;
nessun altro ha saputo raccontare l'America come Altman, e questa realtà meta-filmica rimane una particolarità altmaniana inconfondibile quanto rara nel mondo del cinema; perché intanto la gente continua a parlarsi addosso e spesso non si ascolta veramente, improvvisando dialoghi che non varrebbero la carta di un copione; il che si può dire anche di tanti dialoghi recitati da tanti attori...
Il documentario è ricco di materiale inedito compresi dei super8 di famiglia, interviste, conferenze stampa, apparizioni TV, fotografie e aneddoti, in un mosaico multimediale che può rendere la statura dell'iconico iconoclasta autore di films come M*A*S*H, McCabe & Mrs. Miller, Buffalo Bill and the Indians e Short Cuts, sempre che questi titoli appartengano alla memoria dello spettatore.
Altman riduceva il suo amato, Grande Paese in un microcosmo talvolta grottesco, a tratti surreale ma invariabilmente e inevitabilmente frammentario, orchestrandolo in una sorta di 'caos controllato' che gravitava -come vediamo qui- all'interno di una "famiglia" cinematografica creata sul set, una piccola comunità indipendente simile al paesino di frontiera de 'I compari'.
In generale, Altman non piaceva agli Americani perché rendeva la loro immagine grottescamente reale, e il resto del mondo non lo amava molto perché i suoi film non erano dei 'classici' films americani; per un cinefilo sono già due ottimi motivi per amarlo, ma a parte il fenomeno di M*A*S*H, di cui tutti ricordano soprattutto la con/seguente serie TV, e i due vincitori a Cannes, Nashville e The Player, i suoi films non hanno fatti incassi strepitosi, e spesso sono stati sottovalutati anche dalla critica. Dal canto suo Altman ha proseguito imperterrito per la sua strada, malgrado i fallimenti, le vacche magre e i traslochi oltreoceano, e non soltanto non ha mai pensato di lasciare il set, se non per la durata del suo "intermezzo teatrale" ma non ha mai nemmeno variato il suo registro, mantenendo un suo personalissimo modo di fare cinema che tutt'ora ci rende un'idea meno 'fiabesca' degli USA di quella riprodotta in serie dal cinema Americano, ma profondamente e onestamente Americana, e attraverso il senso di estraneazione reso dal set sempre affollato e dal suo quasi-esclusivo overlapping, ovvero la sovrapposizione dei dialoghi, esprime ancora perfettamente il male che è nor-male ormai in ogni paese industrializzato, di una incomunicabilità che nel frattempo si è aggravata esponenzialmente attraverso la tecnologia digitale, quando ormai chiunque comunica con chiunque altro con ogni mezzo possibile, e nessuno ci capisce più niente.
Una nota finale riguarda la salute di Altman, che gli diede parecchi problemi e lo portò infine ad un trapianto cardiaco; in questo documentario non se ne parla molto, ma tra uno spezzone e l'altro della sua intera vita riassunta in 96' possiamo trovare qualche indizio valido, tanto per il suo caso che per l'America intera:
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