domenica 19 gennaio 2014

Carnaggio

Leggendo ieri per la prima volta il titolo


Carnage di R. Polansky (2011)
☻☻- (o anche ☻+)

nel documentario dedicato al famoso cineasta giudeo Polacco, non ho perso tempo a scoprire il film, un'operina molto teatrale e molto femminile (orale) ambientata in un unico spazio (un appartamento a NYC) dove una discussione tra i genitori attorno al litigio dei loro bambini si trasforma a sua volta in un litigio, ma contenuto nei limiti della ipocrisia minima indispensabile all'individuo adulto per potersi dire tale; 


la cosa mi ha ricordato (a proposito di pathos) il tristissimo Who's afraid of Virginia Woolf, a sua volta fortemente teatrale, e in cui era pure forte -secondo le leggi dello spettacolo- la presenza dell'alcool come "droga sociale" (e legale); è un filmino svelto, a tratti divertente, encomiabile per la direzione del cast, ed è proprio di questo che -per cambiare- voglio scrivere:


Kate Winslet è una delle pochissime donne famose che sembrano aver mantenuta inalterata la femminilità, e purtroppo non mi riferisco alla loro particolare, personale femminilità, ma alla femminilità in generale, per quanto ci è concesso di vedere oggi nel flusso multimediale;


dico "una delle pochissime" perché sono certo che esistano altri esempi famosi e ancora viventi, ma al momento non me ne sovviene un altro; Kate Winslet non è particolarmente bella, ma in compenso la sua bellezza è lampante, ruspante, Australe e soprattutto, inequivocabilmente, muliebre; non di meno -- e questo dovrebbe darci da pensare a tutti -- è forse la più brava attrice in circolazione;


per quanto riguarda il blogger, che è senza ombra di dubbio il più estremo, convinto e inamovibile dei misogini (perché la misoginia non è mera antipatia, ma uno stato) essa rappresenta un'aspetto della "altra metà del cielo" che da molto tempo è velata da una nube oscura; forse una chemtrail

non me ne lamento, ma Kate Winslet è una delle pochissime occasioni per ri-pensarci, senza poi alcuna valida occasione per continuare a farlo, nella "vita reale"; e certamente non vorrei mai uscire a cena con Kate Winslet, specialmente se ha bevuto;


Jodie Foster forse è una attrice, e forse è anche brava, ma è soprattutto Jodie Foster;


la figlia di un tenente colonnello USAF che divenne celebre per il suo didietro pallido scoperto da un cane per la pubblicità della Coppertone in TV, per il suo ruolo di mini-mignotta da Oscar in Taxi Driver, oggetto dei morbosi desideri di Gigi Proietti in Casotto, che trasformò l'amabile personaggio di Addie Pray in una sciatta smorfiosa (aggettivo mai più adeguato) di provincia (e a colori!) nel triste serial Paper Moon, e che ispirò qualcuno ad uccidere qualcun altro; per quanto l'altro se lo meritasse; 


al di là degli aspetti socio-politici, per me c'è qualcosa che va oltre la mera repulsione verso questo personaggio, e tanto ero felice l'altra sera constatando che quella di Elysium era la sua ultima apparizione sugli schermi, tanto sono rimasto spiacevolmente sorpreso dalla sua presenza qui, dove la Foster sembra infine rivelare quella mostruosità sorcina che da piccola riusciva a dissimulare facilmente agli occhi dello spettatore medio (e adulto); 


fare tante smorfie per tutta la vita ha trasformato il suo volto in un grottesco mosaico di rughe che, assieme alla sua fisionomia aguzza, la rendono uno spettacolo pietoso, ma pur sempre detestabile;
a tratti spaventoso;


io ritengo possibile che ella sia l'esito di un esperimento militare segreto, che in qualche modo prevedeva dei geni di ratto; ma non vorrei conoscerne i dettagli; in ogni caso qui è molto credibile nella parte della donna quasi-isterica, e poi della quasi-isterica ubriaca "che non riesce a ubriacarsi" (una caratteristica molto femminile);


come si può constatare sulla pagina di IMDB con il cast, i nomi dei due attori maschi seguono quelli delle donne, i due mariti sono piuttosto accessori, in un senso molto douchebagiano del termine che soltanto un'autrice femmina poteva rendere, e sui quali le due tigri del set proiettano le loro repressioni post-borghesi, trattenendosi dal prendersi a bastonate in faccia come i bambini, ma esprimendo la loro indomabile vuotezza tra vomitate a spruzzo, fiumi di parole e sbornie incontrollabili; non soltanto il film tratta di una cattiveria propria dell'uomo -e della donna in part.- che non aspetta altro che di manifestarsi alla prima occasione di un confronto in società, ma anche di quanti ne possono fare un soggetto tanto interessante da interessare i cineasti ebrei Polacchi di Hollywood (ad es., una ebrea iraniana di origini Russe)  e di tutti quelli che ne apprezzeranno poi i risultati sullo schermo; le regole principali del cinema sono sempre le stesse dall'inizio -compresa la "J word"- e il fatto che si possa intrattenere il pubblico ponendo uno specchio, o più specchi variamente deformanti sullo schermo, per un paio d'ore, in genere non preclude la possibilità che lo spettatore, o il Gentile blogger occasionale, ci guardi attraverso per riconoscere la medesima profonda radice contorta, ed essenzialmente amara il cui gusto innaturale impregna da sempre l'antichissima arte delle parole, di cui il cinema è solo una moderna conseguenza tecnica;


Christoph Waltz, che è diventato celebre per la sua parte di colonnello delle SS in Inglorious Basterds dopo una vita di TV in Austria, è forse il primo attore che non sia "ebreo", ma che abbia contribuito alla causa del popolo eletto lasciando in eredità al mondo intero un rabbino, suo figlio;
non è bello, non è aitante, non è simpatico, come ufficiale delle SS era ridicolo, come pistolero (in Django) era penoso, e in fondo questo è tutto quello che si può desiderare da un Austriaco ebreo-in-extremis e dall'aspetto molto ordinario, che fa il nazista e il pistolero nei film;
qui, nel ruolo dell'avvocato di Big Pharma, è pressoché perfetto;

e poi c'è Michael C. Reilly, per cui non occorrono molte parole:

se mai;


e se non altro, questa è una prospettiva che raramente viene rifilata come recensione cinematografica.
Non consiglierei a nessuno il film, e che compaia nella filmografia di un Polanski è per me solo un segno dei tempi.

Nel frattempo ho visto anche


The Great Gatsby di B. Luhrmann (2013)

e, credeteci o meno, questa è la cosa migliore del film.
Non è uno di quei titoli che un serio blogger vorrebbe mai recensire nel suo blog.
Quel cagnolino però è un tesoro.

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