The Rover di D. Michôd (2014)
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è la solita solfa post-apocalittica, un lungo viaggio nell' inferno piatto e vuoto che di fatto è l'Australia; la presenza di ben due protagonisti, un Guy Pierce rabbioso e Robert Pattinson nel ruolo del mentecatto, non riempie abbastanza questo incredibile continente desolato, che già ai tempi di Mad Max si era scoperto lo sfondo ideale per un'ambientazione post-nucleare, post-epidemica, o qualunque cosa si possa aggiungere a "post", cosa che è particolarmente utile nel caso di un blog;
tra un ammazzamento e l'altro, lungo un percorso narrativo piuttosto vago, non c'è molto da vedere:
che non è proprio niente
ma non è molto comunque;
questa esperienza filmica di estrema piattezza è impreziosita da una colonna sonora di paradossale grande profondità, a cura di Mr. Antony Partos; purtroppo non c'è altro da segnalare;
il film si conclude con Guy Pierce che seppellisce un cane;
è la stessa scena che ho vista pochi minuti dopo, all'inizio di
Tyrannosaur di P. Considine (2011)
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dove la bestiola in questione viene uccisa con un calcio dal protagonista, il suo "padrone", un avanzo di uomo della strada interpretato dal bravo Peter Mullan, nell'ennesima storia di solitudine, malessere, malattia e birra; qui l'accento fortemente Aussie viene sostituito da quello non meno incomprensibile dei sobborghi di Leeds, dove si consumano i fatterelli e i fattacci che costituiscono la miserabile esistenza di Joseph e della sua occasionale amicizia femminile;
questo film mi ha ricordati altri recenti titoli neo-realistici del cinema Britannico in cui birra, droghe e violenze si consumano abitualmente su sfondi di un miserabile squallore senza vie di fuga, e dove il cinismo dei protagonisti viene esasperato dalle loro condizioni di estrema precarietà;
dal bambino di This is England (2006), ai mostri adolescenti di Eden Lake (2008) fino al personaggio passatello di Tyrannosaur, tra gli altri, abbiamo visti svariati casi umani con l'unico denominatore comune del disagio, della rabbia repressa, dell' indigenza e dell'indifferenza che sfociano puntualmente nella violenza dipinta a tinte forti e veraci nei vari quadretti della moderna Inghilterra; nessuno si chiede mai il perché di questa simpatia particolare dei produttori per tanta miseria, tanto squallore fisico e morale, tanta bruttezza, forse perché dal cinema non viene mai offerto qualcosa che tenda all'ottimo e al sublime, in nessun caso, al di fuori dell'universo Marvel e di Matthew Barney; i rarissimi casi del passato suggeriscono quale potrebbe essere l'effetto di questa improbabile contro-tendenza che ovviamente sortirebbe un effetto contrario a quello prodotto qui, e che nell'insieme io definirei scoraggiante; potrebbe mai esistere un motivo per cui qualcuno, tra chi investe decine o centinaia di milioni nel cinema, vorrebbe mai produrre qualcosa che si potrebbe dire incoraggiante per il pubblico?
Dall'autore dell'ottimo Los Cronocrimenes (2007) arriva
Open Windows di N. Vigalondo (2014)
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dove il principio hitchcockiano del voyeur coinvolto in un crimine viene proiettato nel mondo telematico e ben oltre i limiti della verosimiglianza, con qualche caduta disastrosa sul piano logico-narrativo e parecchi sbandamenti lungo il percorso; la ibridazione etnica del prodotto, dovuta alla presenza del perennemente apprensivo Elijah Wood, aggrava la situazione, resa drammatica dalla ex-pornostar Sasha Grey; ma dubito che questo film sarebbe stato meglio con Nicole Kidman; o chiunque altro;
voglio però annotare questo a proposito, non avendo mai sentita nominare. e tantomeno veduta Miss Grey prima di questa mediocre occasione, ho immediatamente provata una repulsione istintiva nei suoi confronti, un genere di disprezzo che va oltre la media delle attrici non-pornografiche in circolazione, e di cui pure la professione sottintende ogni possibile attività "trasgressiva"; il che è un modo molto raffinato per dire che "ce l'ha proprio scritto in faccia". E non è niente di buono.
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